Questo articolo è un ritrovamento del 2017, un’intervista al grandissimo Bernie de Koven che riesce a cimmuovermi ogni volta che incontro il suo sguardo in qualche sua foto. Ho avuto la fortuna di avere un breve scambio di mail con lui prima della sua dipartita… e serbo quelle parole come un dono dolcissimo. Lascio intatto l’articolo, nella sua naivete… Buona Lettura amici giocondi 🙂
Sono molto interessata al gioco perché è uno dei mezzi più potenti, insieme alla risata, per tornare in contatto col nostro bambino interiore. Sono d’accordo con De Koven quando dice che nessuno perde la giocosità, neanche l’adulto più inquadrato. È necessario però fornire l’ambiente adatto per scrollarci di dosso i tabù che ci hanno allontanato dalla libertà di giocare e il club della risata, o una qualsiasi altra comunità giocosa, può aiutarci a tornare in contatto con questo bisogno innato.
Ho notato che, introducendo più giochi nella sessione, le risate si liberano più facilmente e che i giochi che non hanno nessuno scopo specifico, sono i più divertenti. La nostra cultura ci insegna fin da piccoli che l’errore è qualcosa da evitare, di sbagliato: nel gioco scopriamo che è vero l’opposto, perché quando si sbaglia e si celebra l’errore si prova un profondo senso di liberazione, si ride di gusto, diventiamo più indulgenti con noi stessi e quanto più la persona è meno incline ad accettare i propri e gli altrui errori tanto più è grande questo senso di liberazione.

La macchina umana – Club della Risata a Monte San Giusto
Andando a spasso per il web ho notato che non esiste nessun materiale in italiano di un personaggio che stimo molto e che seguo da vari mesi. Dopo aver scoperto e divorato le 18 pagine di questa intervista ho deciso di tradurre per voi alcuni dei passi più significativi. Lui è Bernard De Koven e l’autore dell’intervista è nientepopòdimenoche l’ American Journal of Play. Alla fine dell’articolo trovate il link all’intervista completa in inglese 
In quest’intervista si parla delle virtù del gioco giocoso e si discute delle radici della giocosità, del potere dell’immaginazione condivisa, della differenza tra scuola e apprendimento, dei pericoli della deprivazione del gioco e del dolce potere rivitalizzante e comico dei giochi non competitivi.
CHI È BERNIE?
Bernard De Koven, classe 1941, è un game designer americano, teorico e studioso del divertimento e del gioco, autore e docente. È l’autore del libro “The well-played game” (non ancora tradotto in italiano, ahimé). A playful path, il suo lavoro più recente, è una raccolta di saggi del suo blog DeepFun, in cui condivide da tantissimi anni la sua filosofia e un numero imbarazzantemente alto di giochi ai quali potete attingere liberamente. De Koven è stato anche un game designer per case di produzione di giochi elettronici come la Ideal Toy Company, Children’s Television Workshop, Mattel Inc., e CBS software. Nel 1971 ha fondato The Games Preserve, un centro nella Pennsylvania orientale, dedicato all’esplorazione dei giochi e del giocare.
Buona lettura!
Le esperienze della tua infanzia ti hanno portato a interessarti al gioco?
In qualche modo sì. È difficile dire che impatto abbiano avuto i miei genitori. Mio padre giocava molto con me quando ero piccolo. Amava gli scacchi e il bridge e aveva molti libri sugli scacchi che studiava appassionatamente. Giocavamo anche giochi di parole e inventava delle variazioni su un gioco di spelling. Era anche molto competitivo e questo deve aver avuto un impatto sul mio particolare focus sulla giocosità (Bernie è un promotore dei giochi non competitivi ndt). Ci siamo trasferiti molto spesso e credo che questo abbia contribuito alla formazione del mio umorismo e delle capacità giocose che hanno nutrito la mia abilità di farmi (e tristemente lasciare) nuovi amici.
Nel 1968 ti sei occupato di sviluppare il curriculum teatrale per le scuole elementari di Philadelfia. Com’è andata?
Naturalmente ho cominciato con giochi teatrali ed esercizi e ai ragazzi piacevano abbastanza. Dopo un po’ hanno cominciato a chiamarmi “Mr. Drama”. Da lì ho scoperto un libro fantastico sull’improvvisazione di Viola Spolin che mi ha portato a collezionare un gran numero di giochi e mi ha permesso di fare il primo passo nella comprensione dell’importanza del giocare. Questi ragazzi mi hanno insegnato molto a proposito del gioco lungo il percorso e il loro insegnamento è diventato la base del mio lavoro.
Inizialmente andò bene ma dopo 6 mesi cominciai a preoccuparmi dell’efficacia del mio metodo. Appena lasciavo l’area, anche solo per un minuto, i ragazzi interrompevano ciò che stavano facendo e cominciavano a girare intorno sconsolati o a prendersi a cazzotti. Quindi decisi che avrei avuto successo solo quando i ragazzi non avessero interrotto il gioco dopo la mia uscita dall’aula. Dopo mesi di esperimenti frustranti e sull’orlo della disperazione chiesi ai ragazzi se c’era qualcosa che avessero voluto fare. La loro risposta immediata fu “Fare un gioco!“. “Ma è quello che abbiamo fatto finora” risposi. “Ma non questo tipo di giochi, noi vogliamo fare giochi veri, come Duck-Duck-Goose” (guarda il video). “Oh” ho pensato “questo tipo di giochi… quelli che non hanno uno scopo”. Ho deciso di farli fare a modo loro, sperando che il preside non venisse a farci visita proprio in quel momento.
Ha funzionato?
Ho fatto il test: sono uscito dall’area, sono stato fuori un paio di minuti (non uno, due minuti interi!) e, quando sono rientrato, loro stavano ancora giocando. Così sono uscito di nuovo. Cinque minuti dopo: stavano ancora giocando. Quando sono uscito e rientrato ancora una volta uno dei ragazzi mi ha chiesto se volessi giocare. Per fortuna l’ho fatto. L’ho fatto davvero. E così abbiamo giocato e ho imparato quanto sia autentica e spesso profonda la drammaturgia dei giochi dei bambini.
Hai mai trovato degli adulti sensibili a questo approccio?
Tristemente, mentre tentavo di insegnare il nuovo curriculum agli insegnanti, ho scoperto che gli adulti sono deprivati dal gioco molto più dei bambini.
Quali sono gli ostacoli che hai incontrato insegnando a giocare?
Gli ostacoli più consistenti in cui mi sono imbattuto sono quelli posti dalle persone che tentano di giustificare il gioco, specialmente se se la giustificazione che stanno cercando si accorda a criteri diversi dal puro divertimento. Chi ha a che fare col business ad esempio, che vuole giocare con l’intenzione di aumentare la produttività, ridurre le assenze, spronare la creatività o generare nuove idee. Gli insegnanti, che vedono nel gioco un veicolo per migliorare il comportamento, aumentare la soglia dell’attenzione o far perdere peso agli studenti. Poi ci sono quelli per cui il gioco ha a che fare solo con la vittoria e niente a che vedere con il divertimento. Se c’è qualcosa di divertente, per loro, è vincere.
Dicci di più a proposito della tua visione del gioco.
Il mio tipo di gioco è di quelli che fa ridere. Beh, che fa ridere me con altre persone che ridono. Mi piace cambiare i ruoli, creare nuove regole. Non mi piace raccontare barzellette. Sono un improvvisatore. Secondo me raccontare storielle è in qualche modo aggressivo. Il mio tipo di gioco assomiglia molto al modo in cui amo. Comprende un sacco di abbracci, tenersi e sorprendersi. Credo che voi lo chiamereste “gioco libero”. Una manifestazione e celebrazione della nostra capacità di liberarci a vicenda dai vincoli sociali, dalle paure, dalle differenze culturali, dalle predilezioni intellettuali.
Eravamo esperti del gioco all’inizio della nostra vita? E se è così, perché ce ne allontaniamo?
Non eravamo esperti, Non avevamo scelta. Dovevamo giocare. È un imperativo biologico, soprattutto per i più giovani. Crescendo troviamo altri modi per imparare e dedicarci a qualcosa. Ne fuggiamo perché abbiamo molte paure, alcune delle quali fondate. È rischioso, il gioco lo è. Essere visti giocare è rischioso.
Sono i timidi e gli impacciati i più preoccupati a essere visti nel gioco?
No. È come se il gioco diventasse un atto politico. Ci sono tempi e spazi in cui è previsto che si possa giocare, o almeno dove è consentito farlo. Questi spazi e tempi cambiano per ogni cultura. Alcune culture celebrano il carnevale ad esempio, altre organizzato party nei parcheggi o negli stand durante gli intervalli. Ma altre volte davvero non ci si aspetta che nessuno giochi, specialmente se non si è in un’area designata. Quando non sei nel luogo o nel tempo giusto hai bisogno di una certa dose di coraggio, di spontaneità, di un senso di missione o di essere con persone che hanno voglia di essere sciocche tanto quanto te. Giocando pratichi la libertà, per questo è un atto politico.
Non credo sia la timidezza a tenere le persone lontane dal gioco, più della sensibilità agli altri o dell’osservanza delle norme sul giusto comportamento. Dipende molto dal tipo di giocosità che stai chiedendo di mostrare.
I bambini posso insegnare agli adulti a giocare?
Possiamo imparare e sicuramente impariamo molto dai bambini. Ma non penso che loro ci insegnino a giocare. Piuttosto ci invitano, ci danno il permesso di cui sembriamo avere bisogno.
Qual è la differenza tra un gioco competitivo e uno cooperativo?
Tutti i giochi sono cooperativi in un certo modo: ogni gioco è basato sul nostro accordo di rispettare una serie di regole decise per determinati motivi. Nei giochi espressamente competitivi la vittoria è basata sulla performance individuale. In quelli cooperativi invece, la vittoria è basata sulla performance collettiva.
Qual è il bello dei giochi cooperativi?
I giochi cooperativi permettono di manifestare ed esercitarci nella giocosità e anche per formare una comunità giocosa. Nei giochi cooperatvi il giocatore è più importante del gioco. Le regole del gioco e gli obiettivi si modificano costantemente per ottimizzare l’accesso alla comunità di gioco.
Perché è così importante coltivare la giocosità?
Non smettiamo mai di essere giocosi. Per me è incredibile e rassicurante vedere ogni volta che coinvolgo gli adulti in giochi senza scopo, “giocosi” – come i Nuovi Giochi, come essi abbraccino immediatamente, menifestino e rivelino la loro giocosità. La cosa importante per gli adulti è permettere loro di essere giocosi. Perché la giocosità, come lo humour, è una capacità di sopravvivenza. Ci aiuta ad adattarci al cambiamento, a impegnarci a vicenda, a creare una comunità. La giocosità è flessibilità, reattività, apertura, sensibilità, consapevolezza. Ci connette alla vita.
Link all’intervista in inglese completa qui.


